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Ringrazio la Cooperativa Eortè per l’invito a offrire questo contributo, che nasce da un percorso di collaborazione iniziato molti anni prima del mio arrivo a Carpi come responsabile della salute mentale.

Questa collaborazione non può che proseguire, tenendo conto di quanto mi accingo a proporre, in queste mie brevi riflessioni. Esse nascono, anche, da uno degli incontri più stimolanti degli ultimi mesi (prima attraverso la lettura, e poi anche di persona) è stato quello con Daniele Mencarelli.

Pochi mesi fa, ha vinto il premio Strega Giovani con Tutto chiede salvezza (che è il racconto dei suoi sette giorni di Trattamento Sanitario Obbligatorio).

 Il suo libro precedent è “La casa degli sguardi”. Questo libro è la narrazione del suo inserimento lavorativo, in un momento particolarmente buio, in una Cooperativa di pulizia e manutenzione dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma, che diventa momento di svolta personale, di uscita da una prospettiva di sostanziale disinteresse per l’“altro” (i colleghi di lavoro, i bambini ricoverati e i loro genitori, i propri familiari) e di progressiva espressione di tutte le proprie capacità, lavorative, relazionali e poetiche.

Il libro di Mencarelli fornisce una preziosissima opportunità, a tutti i lettori, di cogliere la ricchezza potenziale di tutti i percorsi di inserimento lavorativo, che rappresentano una componente essenziale delle proposte che possono essere offerte da un Dipartimento di Salute Mentale a tutte le persone che non trovano da sole le occasioni lavorative che consentano loro di riemergere, in parte o in tutto, dalla propria esperienza di sofferenza mentale.

 Il patrimonio personale di capacità di ognuno di loro (anzi, di ognuno di noi) non viene mai annullato dal proprio “nucleo di fragilità”: rimane in attesa di riemergere, di riprendere quota e concretezza.

Il lavoro dei professionisti della salute mentale non può mai limitarsi a ridimensionare l’influenza del nucleo di fragilità (con le sue manifestazioni cliniche e relazionali), ma deve mirare sempre al riemergere delle capacità “congelate”, ma non annullate, dalla sofferenza mentale.

Se queste sono le premesse, i professionisti della salute mentale hanno la necessità che la rete locale (Servizi sociali, Amministrazioni pubbliche, Centri per l’impiego, Cooperative, Associazioni di volontariato, e molti altri…) condivida a pieno questa prospettiva di valorizzazione delle capacità di chi si trova ad affrontare – spesso a lungo – questa stagione dolorosa di congelamento della propria vita personale e sociale.

Uno degli elementi chiave di questi percorsi è che possano essere, quanto più è possibile, personalizzati, cuciti su misura. Il rischio permanente, in psichiatria, è quello di offrire soluzioni che rispondono allo schema di offerta di una taglia unica per tutti (“one size fits all”), come è facile ricordare nel caso dell’abbigliamento e della cultura manicomiale. Anche oggi, però, questo rischio si ripropone, in tutti i casi in cui si cerca di far adattare la persona alle sole soluzioni di cui i Servizi dispongono in quel preciso momento (che si tratti di farmaci, di soluzioni residenziali, di proposte “riabilitative”). I progetti personalizzati si fondano, invece, sulla unicità della persona, della sua storia, della sua famiglia, della sua prospettiva esistenziale: per questa ragione vanno tagliati e cuciti su misura. Non ho dubbi che la competenza dei professionisti della salute mentale si possa misurare soprattutto sul piano di questa flessibilità nella personalizzazione delle proposte.

Nella nostra Regione e nella nostra realtà si sta ampliando il ricorso al budget di salute, che rappresenta certamente uno strumento innovativo, nella direzione della massima personalizzazione delle proposte: finora esso è stato adottato soprattutto sull’asse dell’abitare (con soluzioni come il co-housing), ma i suoi campi di applicazione credo verranno gradualmente ampliati, nei prossimi anni.

Affinché un progetto sia effettivamente cucito su misura, la sua definizione, e la sua successiva valutazione, presuppongono la necessità di un dialogo tra tutti i soggetti coinvolti, in presenza dei diretti interessati (familiari compresi), fin dall’inizio e fino in fondo. Se questo non accade, il rischio di proposte “a taglia unica” cresce considerevolmente.

Anche le Cooperative Sociali si trovano, inevitabilmente, di fronte a sfide analoghe, nel momento in cui partecipano attivamente, e creativamente, a percorsi “abilitativi”: poche proposte predefinite, cui devono adattarsi i soggetti interessati, oppure proposte multiple, che possano essere pienamente aderenti al profilo individuale di chi necessita di un progetto (temporaneamente) supportato?

Non ho alcun dubbio rispetto alla disponibilità ed alla capacità – già ampiamente dimostrate - della Cooperativa Eortè di raccogliere la sfida della flessibilità e della massima personalizzazione delle proposte.

Un ultimo elemento, che ritengo essenziale, è l’invito, a tutti i soggetti in una fase di fragilità e a tutti coloro che lavorano con loro e con le loro famiglie, a non sottovalutare la centralità delle aspettative favorevoli, che sono un ingrediente indispensabile di tutti i progetti personalizzati (come il lievito per le tigelle o il gnocco fritto). È stato da poco pubblicato un libro di cui sono curatore, ed autore (“La pratica quotidiana della speranza” - Mimesis editore), che – attraverso testimonianze personali di guarigione, e riflessioni teoriche – punta a sottolineare che le proposte “abilitative” sono una delle forme in cui si concretizzano, nella quotidianità, le speranze ragionevoli (che sono sempre speranze “umili”, ma fortemente condivise).

Dr. Giuseppe Tibaldi – Direttore Salute Mentale Area Nord – DSM-DP AUSL Modena

 

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